I miti di fondazione dell’isola d’Ischia, quelli che ne hanno decretato l’ingresso nella storia come entità politico-sociale, sono le due leggende di Tifeo e dei Cercopi.
La leggenda di Tifeo fa parte di un ciclo di racconti epici (miti teogonici) sull’origine degli dei e la creazione del mondo. Secondo Esiodo (Tifonomachia) Tifeo era stato generato da Tartaro e Gea con l’intenzione di farne l’oppositore di Zeus, al fine di restituire il trono degli déi a quel Crono (a sua volta figlio di Gea), che proprio Zeus, suo terzogenito (di Crono), aveva spodestato. Il mostro, fedele alle consegne materne, ingaggiò un’aspra lotta con Zeus uscendone però non solo sconfitto, ma anche costretto a giacere per sempre sotto il peso di un’isola che Virgilio poi identificò nell’Eneide con Ischia, l’antica Inarime.
Pur condannato a questa dannazione il gigante non si arrese, ma trasformò il suo respiro in vulcano e prese di tanto in tanto a far tremare l’isola sotto cui era costretto, dando il là a frequenti eruzioni e terremoti.
Protagonisti del racconto mitologico dei Cercopi sono invece due malfattori dediti al saccheggio e alle ruberie dei viandanti, i fratelli Frinonda ed Euribato. Un giorno, Eracle, su mandato della regina Onfale, catturò i due briganti e li appese per i piedi alle estremità di un bastone che, di seguito, si caricò in spalla tenendo entrambi a testa in giù. La visione delle natiche villose dell’eroe suscitò l’incontenibile ilarità dei furfanti, cui si associò immediatamente lo stesso Eracle pur ignorandone il motivo.
I due ridevano di gusto all’avveramento della profezia materna che, sin dalla tenera età, li aveva messi in guardia da un tale “Melampygo”, che significa appunto eroe dal “deterano nero”, al cui cospetto invece, a distanza di molti anni, si trovavano in quel momento. La situazione persuase così Eracle a lasciare liberi i due delinquenti, in cambio dell’implicita e definitiva rinuncia alla condotta di vita sin lì tenuta.
Contrariamente alle attese però, Frinonda ed Euribato ripresero come nulla fosse le vecchie abitudini, stavolta suscitando l’ira di Zeus che non esitò perciò a trasformali in scimmie (cercopitechi) e a disporne la deportazione nell’arcipelago flegreo, dove i due furono obbligati a vivere e riprodursi (da qui, secondo alcuni, il topos di Pithecussai per designare Ischia e Procida).
I due racconti di cui, tra l’altro, esistono tante versioni quante sono le diverse localizzazioni dei fatti – dalla Grecia all’Asia Minore – svelano diversi significati.
Innanzitutto, nel caso di Tifeo, la tendenza degli antichi a fornire un’interpretazione antropomorfa di eventi naturali cui altrimenti non avrebbero saputo dare spiegazione, mentre nel mito dei Cercopi il tratto saliente è sicuramente il palesamento di un complesso di superiorità nei confronti dei colonizzati, che tuttavia non impedisce alla fine il reciproco riconoscimento tra civile e selvaggio.
L’aspetto più importante è però l’avversità dei greci nei confronti del sentimento di “hýbris” (ὕβρις) che, letteralmente, va tradotto con i termini di tracotanza o eccesso.
La “némesis” (νέμεσις) divina nei confronti di chi si macchia di tracotanza viene sempre resa con un’immagine di supplizio eterno, dal momento che la brama di potere (Tifeo) o di averi (i Cercopi) è sempre stata vista dai greci come potenziale fattore di dissoluzione della comunità, da punire perciò in maniera esemplare, soprattutto da rendere in una forma che funzionasse anche come monito collettivo.
Gli storici concordano nel definire il “senso del limite” (μέτρoν) come la cifra espressiva di tutta la grecità, il concetto che fa da sfondo a tutta la produzione artistica e intellettuale in terra greca, suggerendo anche che questa tensione dialettica tra “etica del finito” e “brama dell’illimitatezza” scaturiva probabilmente dal loro stesso immaginario collettivo: abitatori di un territorio finito per definizione come sono le isole, con davanti, di contro, il simbolo per eccellenza dell’infinito e della dismisura, il mare.
Queste le ragioni che hanno fatto sì che Ischia, non a caso un’isola, diventasse la testa di ponte nel Mediterraneo occidentale della grandiosa cultura greca, cui, senza dubbio, sarebbe bene tornare a rivolgersi pure in proiezione futura.